mercoledì 4 febbraio 2009

L'UCCELLO CHE GIRAVA LE VITI DEL MONDO di Haruki Murakami

LETTO A: Gennaio-febbraio 2009
CASA EDITRICE: Einaudi
PREZZO: 16,50 euro


L’unica definizione possibile per questo libro è quella di un libro strano, molto strano. Okay, dovrei saperne di più sull’immaginario giapponese per poter capire a fondo tutte le sue implicazioni. Ho riconosciuto vari elementi che nella produzione culturale giapponese sembrano avere un significato particolare (come pozzi, cavalli e gatti), senza però che li abbia compresi bene.

Ringrazio chi me l’ha consigliato perché per le prime 600 pagine mi ha tenuto incollata, i misteri s’infittivano uno dopo l’altro, e anche quando smettevo di leggere per fare altro, inevitabilmente mi riavvicinavo sempre al libro e riprendevo a leggere. E’ stata una bella sensazione. Le ultime duecento pagine del libro, però, mi sono costate una fatica immane. Murakami ha una prosa gradevolissima, ma a volte ce la fa veramente troppo, inutilmente lunga. Purtroppo da questo punto di vista ho assunto un po’ la mentalità editoriale: un libro non deve compiere troppe deviazioni dalla trama principale, soprattutto se sono deviazioni di centinaia di pagine. Ma comunque.

Nel complesso, la scrittura davvero ammirevole per semplicità e immediatezza di Murakami non basta a sopperire il fatto che il libro è costruito male.
Ottocento pagine di misteri e aspettative che si fanno sempre più grandi e agghiaccianti sono, obiettivamente, un po’ troppe. Il risultato è inevitabile: si arriva alla risoluzione finale con un sospiro di sollievo, più che con il fiato corto per l’emozione. In questo caso, la cosa terribile, innominabile e impensabile che afflige la moglie scomparsa del protagonista, risulta essere un “banale” plagio da parte del fratello, che l’ha spinta ad andare a letto con molti uomini. La cosa in sé è grave, certo, ma considerando che ciò viene fuori come soluzioni di mille misteri apparentemente inestricabili che si diramano per ottocento lunghissime pagine, alla fine fa esattamente l’effetto di una bazzecola. “Beh, tutto qui?” viene da dire.
Per il resto, è interessante la caratterizzazione del protagonista, un perfetto “uomo medio” sotto ogni punto di vista, a cui però capitano eventi straordinari. Ed è proprio il suo essere perfettamente medio che gli permette di non soccombere ad essi.
Pessima, invece, la caratterizzazione dell’antagonista, un “vilen” dall’inizio alla fine, senza la minima svolta né cambiamento che gli dia un minimo di spessore.

Insomma, se avesse avuto 400 pagine in meno, questo libro mi sarebbe piaciuto da morire (le deviazioni dalla trama principale occupano esattamente la metà del libro). Ma la lunghezza eccessiva dà uno sgradevole senso di dispersione che fa giungere alla fine del libro non con il rimpianto per il termine della storia che abbiamo seguito, ma con un senso di liberazione.

Peccato. Vabbè.

mercoledì 22 ottobre 2008

MARGHERITA DOLCEVITA di Stefano Benni

Feltrinelli
Prezzo: 7, 50 euro
Letto a: Ottobre 2008

Margherita Dolcevita è una ragazzina che sa guardare il mondo. Le bastano un cuore appena difettoso e qualche chilo in più per aggiungere sale e ironia alla sua naturale intelligenza delle cose.
Compatisce con affetto le stramberie della sua famiglia, e volentieri si perde nel grande prato intorno alla sua casa, ultimo baluardo della campagna ormai contaminata dalla città e dimora della sua amica invisibile: la Bambina di polvere. Ma improvvisamente, come un fantasma di notte, di fronte alla casa di Margherita appare un cubo di vetro nero circondato da un asettico giardino sintetico e da una palizzata di siepi. Sono arrivati i signori Del Bene, i portatori del “nuovo”, della beatitudine del consumo. Amici o corruttori? La famiglia di Margherita cade in una sorta di oscuro incantesimo: nessuno resta immune. E su chi fa resistenza alla festa del benessere, della merce, del potere s’addensa una nube di misteriose ritorsioni. Margherita sospetta un piano diabolico ed è pronta a mettere in gioco la fantasia, la combattività, l’immaginazione per scoprire in quale abisso di colpevole stoltezza il suo piccolo mondo, e forse il mondo intero, sono precipitati.

Con un po’ di ritardo scrivo di Margherita Dolcevita, una recente perla di Stefano Benni.
Anche questo libro mi lascia un po’ perplessa, non come “La solitudine dei numeri primi”, ma almeno al pari di “Furia” di Rushdie. E probabilmente non sono la sola ed esserlo.

E’ un libro che trovo assolutamente eccelso fino a tre capitoli dalla fine. Margherita è semplicemente irresistibile, ha una parlata simpaticissima e s’inventa parole che molto spesso mi hanno fatto piegare in due dal ridere (tipo “cogliounay” e “tricotillando”). Benni ha un lessico strepitoso e crea periodi assolutamente geniali, di quelli che ti vorresti segnare su un bloc-notes per riciclarteli poi con gli amici (credo anche che lo farò).

Certo discorsi di Margherita, poi, mi hanno ricordato un sacco Irene (a cui consiglio la lettura di questo libro, non foss’altro per il gusto di dirmi se ho torto o ragione). Mi piace sempre quando un personaggio letterario assomiglia in qualche modo a una persona che conosco, perché così l’immedesimazione è molto più facile ed ho, come dire, la sensazione di aver azzeccato la scelta della lettura.

Insomma, per i tre quarti buoni del libro sono rimasta convinta di stare leggendo un libro assolutamente geniale, uno di quelli che riescono ad essere rivoluzionari parlando delle cose di sempre, ad essere originali trattando argomenti conosciuti (il tema della ragazzina di periferia un po’ bruttina che si confronta con il mondo).

La trama mi ha condotto a poche pagine dal finale in una sorta di esaltazione tachicardica, unita al dispiacere di dovermi separare da Margherita entro breve (non mi capita raramente, ma vabé). E poi leggo gli ultimi capitoli, e ci rimango male.
Cioè, non sembra più nemmeno lo stesso libro: tutto diventa labirintico, confuso, retorico. In breve, non si capisce un cazzo. E okay, l’ambiguità ha il suo fascino, anche in un libro in cui tutto è chiaro e limpido. Ma cavolo. Più che ambiguità, pare che Benni non abbia saputo trovare un finale degno del continuo crescendo emotivo di Margherita Dolcevita. Forse lo sviluppo è troppo eccezionale perché un qualunque finale possa reggere il confronto. Si sa che un finale “tiepido” rovina completamente un libro eccelso. Magari Benni ha optato per il finale semi-incomprensibile, in modo da salvaguardarsi da un rischio come questo.
O magari sono io che non ci ho capito un emerito. Ma vabè.

Leggetevi Margherita Dolcevita e fatemi sapere…

E ci sono periodi molto maperò nella vita. Il fiume degli eventi ristagna e non si sa quale direzione prenderà, e andiamo alla deriva in acque torbide. Poi l’acqua diventa limpida, il torrente scorre, e tutto torna trasparente…

sabato 11 ottobre 2008

LA FABBRICA DI CIOCCOLATO di Roald Dahl

Salani
Prezzo: 12 euro
Letto a: svariate volte dall'età dell'infanzia

Un bel giorno la fabbrica di cioccolato Wonka dirama un avviso: chi troverà i cinque biglietti d'oro nelle tavolette di cioccolato riceverà una provvista di dolciumi bastante per tutto il resto della sua vita e potrà visitare l'interno della fabbrica, mentre un solo fortunato tra i cinque ne diventerà il padrone. Chi sarà il fortunato? Per scrivere questo libro, Roald Dahl si avvalse di un suo ricordo: quando era un ragazzino di tredici anni, frequentava una scuola accanto alla quale sorgeva una fabbrica di cioccolato che si serviva degli alunni come "assaggiatori"...



Aspettando di portare a termine le molte (troppe) letture a cui mi sto dedicando in questi giorni, vi regalo una recensione su un libro della nostra (credo) infanzia: La fabbrica di cioccolato di Rohal Dahl.

La storia la conosciamo, c’è questo signore, Willy Wonka, che ha una fabbrica di dolci da sogno, in cui un giorno, grazie a una botta di culo clamorosa, finisce il piccolo Charlie, insieme ad altri quattro bambini.

Okay, so che Willy Wonka è un eroe della nostra infanzia come lo sono Mago Merlino, Sailor Moon, Paperinik, Capitan Harlock, Hulk Hogan eccettera eccetera. Ma siamo sinceri: è uno stronzo patentato.

Innanzitutto, Charlie non può permettersi di comprare il cioccolato di Willy Wonka perché è troppo costoso; la sua famiglia deve risparmiare e sudare un sacco per regalargli una tavoletta di cioccolato all’anno, il che significa che è carissimo. A ben guardare, gli altri bambini che trovano i biglietti e consumano abitualmente il cioccolato Wonka sono tutti dei riccastri (Veruka è figlia di aristocratici, Augustus è grassissimo e dunque non può non essere di famiglia ricca, Mike è circondato da congegni elettronici all’ultimo grido, ecc.), se ne deduce dunque che il cioccolato Wonka è un cioccolato d’élite che solo i ricchi possono permettersi, mentre ai poveri si suggerisce allegramente di attaccarsi al tram.

In secondo luogo, Willy Wonka licenzia in tronco tutti i suoi operai, compresi quelli che lavorano per lui da una vita (tipo il nonno di Charlie), perché ha paura delle spie. Non si preoccupa minimamente del fatto che, avendo lavorato sempre per lui e dunque non avendo altro lavoro in mano se non quello di cioccolatieri, i suoi ex operai finiscano tutti in mezzo a una strada e siano costretti a fare la fame. La fabbrica Wonka spadroneggia sul mercato, quindi questi ex operai non vengono nemmeno assunti dalla concorrenza, visto che a imperare è sempre e comunque il cioccolato Wonka.

E poi vogliamo parlare della schiavizzazione degli Umpa Lumpa? Creature strappate alla loro terra natia per essere sfruttati nella fabbrica di cioccolato Wonka, costretti a fare i lavori più ridicoli (tra cui eseguire balletti)? Chi se la beve la storia che sono patiti dei chicchi di cacao, e che non trovandone nella loro terra (in mezzo alla natura selvaggia) hanno accettato con gioia di andare a lavorare come schiavi nella fabbrica di Willy Wonka (in piena metropoli)?! Diciamo pure che Wonka ha licenziato gli operai e ha ridotto in schiavitù gli Umpa Lumpa perché questi ultimi, essendo un popolo primitivo e non avendo coscienza dell’esistenza dei sindacati, non sanno neanche che il lavoro deve essere retribuito!
E non comincio nemmeno a parlare dei maltrattamenti agli animali e dei processi non proprio conformi alle norme igieniche che si svolgono nella sua fabbrica….

... e infine, se tutto questo scempio non fosse ancora sufficiente a suffragare il fatto che Willy Wonka è un tiranno capitalista, non vi viene da odiarlo semplicemente per il fatto che la sua maledetta fabbrica, ogni volta che se ne sente parlare, fa venire una voglia forsennata di mangiare chili di cioccolata, mandando così a rotoli la nostra faticosa dieta?!

Ma insomma Dahl, un po’ di rispetto…

sabato 4 ottobre 2008

ALEXIS O IL TRATTATO DELLA LOTTA VANA di Marguerite Yourcenar

Feltrinelli
Prezzo: 6,50 euro
Letto a: Ottobre 2008

Romanzo che nel 1929 segnò l'esordio di Marguerite Yourcenar nella letteratura, "Alexis" ha la qualità propria dei libri che restano nel tempo: una grandezza che si riconosce solo più tardi, come è avvenuto per l'"Opera al nero" e per le "Memorie di Adriano". E' la storia di un giovane che cerca di uscire dalla situazione falsa che mette in scacco il suo matrimonio. AL momento di abbandonare la moglie, egli le scrive le ragioni del suo distacco, chiamandola a testimone della lotta vana che ha condotto contro la propria inclinazione omosessuale. Reagendo a una prova precedente che indulgeva alla moda delle biografie romanzate ("Pindare"), la Yourcenar, ventiquattrenne come Alexis, si concentra qui per la prima volta su una vicenda delimitata, 'intimista', spingendosi in profondità nella psicologia del personaggio. L'omosessualità e il titolo stesso del romanzo richiamano un'opera giovanile di Gide, ma si avverte molto più forte l'influenza del Rilke di "Malte Laurids Brigge", a cui sono vicini il tono, gli scrupoli, la religiosità di Alexis, quella tenerezza diffusa che egli emana sulle persone e le cose. Un libro raro, e di quelli della Yourcenar uno dei pochissimi ch'ella non abbia provato a riscrivere, paga di aver detto quanto c'era da dire.


La Yourcenar è una scrittrice con cui ho un rapporto ambiguo: la sua produzione si divide, per me, in libri che sono orgogliosa di esporre nei ripiani più in vista della libreria, e libri che userei volentieri come combustibile per cuocere le castagne (okay, non sono mai riuscita ad andare oltre la centocinquantesima pagina delle Memorie di Adriano, e allora? Ma vi pare un libro leggibile?!).

Questo, per fortuna, è uno dei romanzi che occuperanno un posto di rilievo tra gli altri libri. L’ho letto in poco più di quattro ore, perché la narrazione fila via liscia come seta, con lo stile squisito della Yourcenar.
Colpisce la capacità della Yourcenar d’immedesimarsi in chiunque voglia. Il protagonista, qui, scrive una lettera alla moglie per spiegarle il motivo per cui l’ha lasciata, ovvero la sua omosessualità. L’ha sempre saputo fin da piccolo, ma ha represso ogni pensiero, ogni istinto, ogni desiderio. Ha pensato anche al suicidio, e io direi che, ancora una volta, si ha la dimostrazione di come la morale cattolica cuocia a puntino le sue vittime.

Ma il libro, ovviamente, è più di questo. E’ un trattato sull’animo umano, sulle contraddizioni che scuotono l’essere ogni secondo della sua esistenza, sul coraggio di affrontare l’opinione pubblica che parla per sentito dire e giudica, perché indignarsi è più facile che pensare.
E’ una celebrazione sull’enorme varietà della natura umana, sull’impossibilità di comprendere come certi atti considerati riprovevoli possano essere naturali e spontanei, sul sostanziale non-desiderio di un chiarimento, perché chiarire certe questioni significherebbe rinunciare alla facile visione manichea delle cose.

Tutto questo non è qualcosa che il prossimo deve correggere: è qualcosa che noi dobbiamo correggere. Mettendoci una mano sul cuore e prendendo coscienza delle tante situazioni in cui giudichiamo senza sapere. Perché è facile dichiararsi aperti di mente sulle macroquestioni (guerra e pace, laici e cattolici, omo e etero), ma su tutto il resto? Sulle persone che ci sono davvero vicine, e non su una generica e astratta umanità? Non abbiamo tutti i nostri cattivi, le nostre categorie antagoniste? Con questo romanzo io ho scoperto di averne. E me ne sono vergognata.

Che dire, grazie Marguerite.


Vi sono momenti della nostra esistenza nei quali noi siamo, in modo inspiegabile e quasi agghiacciante, ciò che più tardi diventeremo.


Non vede perché il piacere, in quanto pura sensazione, debba essere un male, mentre non si disprezza il dolore, che è pure una sensazione. Si rispetta il dolore perché non è volontario, ma c’è il problema di sapere se il piacere lo è sempre, o se per caso noi non lo subiamo. Comunque, questo piacere liberamente scelto non mi pare per questo più colpevole.

venerdì 3 ottobre 2008

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI di Paolo Giordano

Mondadori
Prezzo: 15 euro (maledetta Mondadori!)
Letto a: Luglio 2008

Alice ha sette anni e odia la scuola di sci, ma suo padre la obbliga ad andarci. È una mattina di nebbia fitta, lei ha freddo e il latte della colazione le pesa sullo stomaco. In cima alla seggiovia si separa dai compagni e, nascosta nella nebbia, se la fa addosso. Per la vergogna decide di scendere a valle da sola, ma finisce fuori pista, spezzandosi una gamba. Resta sola, incapace di muoversi, al fondo di un canalone innevato, a domandarsi se i lupi ci sono anche in inverno.
Mattia è un ragazzino intelligente con una gemella ritardata, Michela. La presenza costante della sorella umilia Mattia di fronte ai suoi coetanei. Per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia decide di lasciare Michela nel parco, con la promessa che tornerà presto da lei.
Questi due episodi iniziali, con le loro conseguenze irreversibili, saranno il marchio impresso a fuoco nelle vite di Alice e di Mattia, adolescenti, giovani e infine adulti. Le loro esistenze, così profondamente segnate, si incroceranno e i due protagonisti si scopriranno strettamente uniti eppure invincibilmente divisi. Come quei numeri speciali, che i matematici chiamano primi gemelli: due numeri primi separati da un solo numero pari, vicini ma mai abbastanza per toccarsi davvero.
Questo romanzo è la storia dolorosa e commovente di Alice e di Mattia, e dei personaggi che li affiancano nel loro percorso. Paolo Giordano tocca con sguardo lucido e profondo, con una scrittura di sorprendente fermezza e maturità, una materia che brucia per le sue implicazioni emotive. E regala ai lettori un romanzo capace di scuotere per come alterna momenti di durezza e di spietata tensione a scene più rarefatte e di trattenuta emozione, piene di sconsolata tenerezza e di tenace speranza.


Ohibò, questo sì che è un libro che mi perplime.
E’ uno dei rari casi in cui non riesco a stabilire non solo se il libro mi è piaciuto o meno, ma anche se è serio oppure no.

Di tutta prima mi verrebbe da dirvi che questo romanzo è un’accozzaglia di luoghi comuni su temi alla moda, cioè anoressia, bullismo, amori adolescenziali, universitari disadattati; e che contiene anche un discreto numero di errori che mi fa dubitare della sobrietà dei correttori di bozze della Mondadori.
Ma se questo libro me lo sono divorato in poco più di otto ore, non può essere così scadente. E non perché io di solito non leggo roba scadente, ma perché se davvero avesse parlato di cose trite e ritrite, me ne sarei stancata molto prima di arrivare alla fine.

Comunque. Se dovessi fare le pagelline ai protagonisti, darei un 4 alla protagonista femminile e un 5 e mezzo al protagonista maschile. Tutti e due piatti, tutti e due ricettori passivi di agenti esterni, tutti e due vittime ebeti del mondo. Per farla breve, hanno una dimensione psicologica tagliata con l’accetta (e rifinita con il pennato).

Alla storia dò un 7 meno, non foss’altro per il finale a sorpresa che evita, grazie al cielo, il “C’è posta per te” risolutivo (trappolone in cui invece è caduto Dan Brown con Il Codice da Vinci). Mi spiace solo che alcuni dei personaggi più interessanti, come Denis, vadano perduti durante la narrazione. Nel senso che a un certo punto non se ne sente più parlare, e scompaiono nel nulla insieme al loro potenziale, per lasciare il palcoscenico agli scialbi protagonisti.

Okay, il buon Giordano è un chimico, e per di più giovane, e c’è da dire che ha fatto un lavoro migliore di tanti letterati. Lo dico senza mezzi termini: non so se meritasse lo Strega, ma viste le porcherie che oggi si pubblicano in Italia, questo può anche dirsi un prodotto decente.

Del romanzo salvo senza dubbio le scene familiari, quelle in cui i protagonisti, e soprattutto Mattia, si confrontano con i genitori. Emergono vari spunti interessanti, peccato che, un po’ come tutto il romanzo, solo abbozzati.

Ma comunque, aspettiamo le prossime pubblicazioni di Giordano. Come si dice, se sono rose fioriranno...

Mattia pensò che rimaneva solo questo, che tutto l’affetto dei genitori si risolve in piccole premure, nelle stesse preoccupazioni che i suoi elencavano al telefono ogni mercoledì: il mangiare, il caldo e il freddo, la stanchezza, a volte i soldi. Tutto il resto giaceva come sommerso a profondità irraggiungibili, in una massa cementificata di discorsi mai affrontati, di scuse da fare e da ricevere e di ricordi da correggere, che sarebbero rimasti tali.

giovedì 2 ottobre 2008

L'AMORE IN SE' di Marco Santagata

Guanda
Prezzo: 8 euro
Letto a: settembre 2008

“Bubi è il nome del desiderio”. E’ questa la frase che una mattina d’inverno risuona –incongrua, sconveniente, quasi surreale- in un’aula dell’università di Ginevra, mentre il professor Fabio Cantoni spiega un sonetto di Petrarca a un gruppo di studenti. Ma è stato solo un lapsus: il professor Cantoni voleva dire “Laura”, naturalmente. Eppure il fatto che proprio quel nome e proprio in quel momento sia affiorato dalla memoria deve avere un senso… Alla fine di questa giornata diversa da tutte le altre il professor Cantoni scoprirà che è proprio l’aver accettato la nostalgia e il dolore che compongono la memoria a permettergli di stabilire un rapporto più limpido e, forse, pacificato con la sua vita presemte, e la futura.

Mi vergogno di ammettere che, nonostante Santagata sia una cima dell’università di Pisa, in quattro anni non ho mai seguito un corso con lui, né l’ho sentito parlare in conferenza, né l’ho mai incrociato per strada.
Se proprio devo dirla tutta, del fatto che il Santagata professore di Informatica Umanistica di Pisa e lo scrittore vincitore del Premio Campiello e del Bellonci fossero la stessa persona, ne ho preso coscienza solo quando, da Feltrinelli, ho letto la quarta di copertina di uno dei suoi libri.
ero indecisa tra “Il maestro dei santi pallidi” e “L’amore in sé”, poi ho optato per il secondo, perché aveva la trama che mi attirava di più.
E devo dire che non è stato affatto un errore. Uno dei dilemmi che più spesso mi perseguita, ultimamente, è la frattura tra il mondo accademico e quello non accademico. Parlo del campo umanista perché è il mio. Mi chiedo, a che serve tanta cultura, se poi non sappiamo come trasmetterla al mondo, o peggio, dal mondo ci distacchiamo proprio? A che serve imparare ad applicare certe decodifiche, conoscere la terminologia specifica, sapersi orientare perfettamente laddove molti sono ancora alle prime armi, se poi il nostro unico interlocutore è il testo stesso? A che serve, insomma, approfondire sempre di più lo studio umanista, se questo, invece di farci aprire al mondo, ci rende incapaci di comunicare con le persone che il mondo lo costituiscono?
Santagata, con questo romanzo, opera, secondo me, un tentativo di congiungere la specificità del sapere umanista accademico con la vita. Quella più umana, più sanguigna.
Un’operazione molto delicata, e di non facile riuscita. Soprattutto quando a intrecciarsi sono l’analisi critico-filologica di un sonetto del Petrarca e il racconto del primo amore adolescenziale.

Possono i versi degli stilnovisti diventare cornice e sfondo del resoconto, un po’ alla dawson’s creek, del primo batticuore, del primo bacio, senza che il risultato sia un ridicolo patchwork di sapere universitario e storie da “posta del cuore”?
Sì. Santagata ha fatto in modo che fosse così. E tra le decine di versi che s’intersecano con le storie dei personaggi e le descrivono alla perfezione, emerge, chiara, la possibilità che il potenziale della poesia, anche quando viene trattata agli “alti livelli” delle facoltà umanistiche, sia dato proprio da quelle piccole cose, quei luoghi comuni amorosi (il primo batticuore o il primo sguardo, appunto), che noi, dall’alto del nostro cinismo di “persone andate oltre”, siamo abituati a deridere.
Eppure certe emozioni non andrebbero dimenticate, mai. Anche quando sembrano “basse” o ridicole.

Perché mischiare l’alto e il basso si può. Si può scendere dalle vette dell’intellectual radical chic per instaurare un ponte di comunicazione vividissimo con il mondo, senza sentirsi contaminati con le volgarità della realtà di tutti i giorni.

Grazie a Santagata per avermi rivelato l’esistenza di questa possibilità.


“Adesso che è arrivato al punto si chiede se lo ha fatto come sfida alle proprie capacità di interprete o se invece è stato spinto da una oscura premonizione. Perché adesso, in un singolare miscuglio di chiarezza e commozione, percepisce che tanta angoscia esistenziale è pur sempre impastata di amore, amore per una donna…”

IL CANTO DI PENELOPE di Margaret Atwood

Edizioni Rizzoli miti
Prezzo: 13 euro
Letto a: settembre 2008

“Dall’Ade, dove può finalmente dire la verità senza temere la vendetta degli dèi, Penelope racconta oggi la sua storia: da quando, bambina, viene gettata in mare dal padre, forse turbato da una profezia, fino al matrimonio con Odisseo, dallo scoppio della guerra di Troia, a causa della sciocca cugina Elena, alla ventennale lontananza del marito e all’assedio dei Proci, i Pretendenti, che vogliono la sua mano e Itaca.
[…]
Il mito greco viene riscritto attingendo a versioni diverse da quelle confluite nei poemi omerici, e soprattutto secondo le prospettive tipiche della narrativa dela Atwood: il punto di vista femminile, la sottolineatura dei soprusi subiti dalle donne, un’ironia sottile e una raffinata analisi psicologica. Il suo romanzo - un monologo che diventa tragedia classica quando entra in scena il Coro delle ancelle, e accoglie brani di musical, sequenze televisive, lezioni di antropologia- scava sotto le apparenze, e riporta alla luce ciò che il mito nasconde.


Okay, okay, questo libro l’ho letto solo perché era in programma d’esame. Della Atwood avevo già provato a leggere “Tornare a galla”, e l’avevo abbandonato dopo pochi capitoli (e precisamente quando la protagonista si chiede qual è il senso della vita davanti a un alce imbalsamato vestito da giocatore di baseball).
La situazione, con “Il canto di Penelope”, non è migliorata. Siamo davanti all’ennesima riscrittura dell’Odissea, solo che in questo caso il punto di vista è quello di una Penelope morta e sepolta che comunica con noi dagli inferi.

Va bene, lo sappiamo che la Atwood è postmoderna e anche molto ironica. Ma diamine. Una Penelope che si stizzisce perché i medium invocano più Adolf Hitler e Marylin Monroe di lei, mi rimane proprio a metà strada tra l’epiglottide e la tiroide.
Una Elena di Troia che, dopo morta, decide di rinascere per farsi la liposuzione e indossare i tanga, ecco, trasgredisce la mia personale idea di ironia per sfociare nel ridicolo.
Okay, questa Penelope ha anche il suo perché, nel senso che si mette d’impegno a sfatare molti degli stereotipi affibbiati alla sfera femminile (la fedeltà a tutti i costi, la leggerezza nelle decisioni, ecc. ecc.), ma poi mi scivola su una buccia di banana: c’è una scena in cui Odisseo, che non vuole partire per la guerra, si finge pazzo.La sua pazzia, con buona pace degli impiegati del settore primario, consiste nell’arare i campi. La notizia provoca un discreto giramento di tenerini ad Agamennone, Menelao e Palamede, che vanno a casa sua per controllare che la cosa della pazzia sia vera. E qui l’arguta Penelope, che fino a un momento prima si è ripetuta: “non sono bella ma sono intelligente… non sono bella ma sono intelligente..”, li accompagna nel campo dove Odisseo sta arando la terra portando con sé Telemaco, che è ancora un frugoletto. Palamede, che ha capito che è Odisseo è alla mutua ingiustamente, per porre fine alla pagliacciata prende Telemaco e lo piazza davanti al trattore di Odisseo. Odisseo è costretto a fermarsi per non spiaccicare il figlio, e dallo spavento che si prende risulta evidente che la sua non è pazzia, ma solo fancazzismo. E così viene portato di forza in guerra, cosa che avrebbe evitato tranquillamente se Penelope avesse lasciato il lattante a casa.
Ma vabé, poi non ci sarebbe stato il seguito, con grave rimessa da parte della classicità.

Comunque, questa Penelope che grida ai quattro venti che la donna deve essere apprezzata per la sua intelligenza, perché le bellone come Elena si associano molto facilmente alla parola Troia, non mi convince. Ha troppo la coda di paglia e si rode troppo sul fatto che Elena ha i glutei statuari e lei no, per essere credibile. E alla fine, oltre a erogare un mare di luoghi comuni e pregiudizi nel tentativo di sfatarne altri, finisce con il produrre l’effetto opposto ai suoi intenti: sembra che le donne stiano lì con i cartelloni e lo slogan “Non tette ma materia grigia!”, solo perché non sono delle Elene di Troia e non sanno in che altro modo farsi notare.

Ma vabè, il postmoderno è anche questo…