giovedì 2 ottobre 2008

IL CANTO DI PENELOPE di Margaret Atwood

Edizioni Rizzoli miti
Prezzo: 13 euro
Letto a: settembre 2008

“Dall’Ade, dove può finalmente dire la verità senza temere la vendetta degli dèi, Penelope racconta oggi la sua storia: da quando, bambina, viene gettata in mare dal padre, forse turbato da una profezia, fino al matrimonio con Odisseo, dallo scoppio della guerra di Troia, a causa della sciocca cugina Elena, alla ventennale lontananza del marito e all’assedio dei Proci, i Pretendenti, che vogliono la sua mano e Itaca.
[…]
Il mito greco viene riscritto attingendo a versioni diverse da quelle confluite nei poemi omerici, e soprattutto secondo le prospettive tipiche della narrativa dela Atwood: il punto di vista femminile, la sottolineatura dei soprusi subiti dalle donne, un’ironia sottile e una raffinata analisi psicologica. Il suo romanzo - un monologo che diventa tragedia classica quando entra in scena il Coro delle ancelle, e accoglie brani di musical, sequenze televisive, lezioni di antropologia- scava sotto le apparenze, e riporta alla luce ciò che il mito nasconde.


Okay, okay, questo libro l’ho letto solo perché era in programma d’esame. Della Atwood avevo già provato a leggere “Tornare a galla”, e l’avevo abbandonato dopo pochi capitoli (e precisamente quando la protagonista si chiede qual è il senso della vita davanti a un alce imbalsamato vestito da giocatore di baseball).
La situazione, con “Il canto di Penelope”, non è migliorata. Siamo davanti all’ennesima riscrittura dell’Odissea, solo che in questo caso il punto di vista è quello di una Penelope morta e sepolta che comunica con noi dagli inferi.

Va bene, lo sappiamo che la Atwood è postmoderna e anche molto ironica. Ma diamine. Una Penelope che si stizzisce perché i medium invocano più Adolf Hitler e Marylin Monroe di lei, mi rimane proprio a metà strada tra l’epiglottide e la tiroide.
Una Elena di Troia che, dopo morta, decide di rinascere per farsi la liposuzione e indossare i tanga, ecco, trasgredisce la mia personale idea di ironia per sfociare nel ridicolo.
Okay, questa Penelope ha anche il suo perché, nel senso che si mette d’impegno a sfatare molti degli stereotipi affibbiati alla sfera femminile (la fedeltà a tutti i costi, la leggerezza nelle decisioni, ecc. ecc.), ma poi mi scivola su una buccia di banana: c’è una scena in cui Odisseo, che non vuole partire per la guerra, si finge pazzo.La sua pazzia, con buona pace degli impiegati del settore primario, consiste nell’arare i campi. La notizia provoca un discreto giramento di tenerini ad Agamennone, Menelao e Palamede, che vanno a casa sua per controllare che la cosa della pazzia sia vera. E qui l’arguta Penelope, che fino a un momento prima si è ripetuta: “non sono bella ma sono intelligente… non sono bella ma sono intelligente..”, li accompagna nel campo dove Odisseo sta arando la terra portando con sé Telemaco, che è ancora un frugoletto. Palamede, che ha capito che è Odisseo è alla mutua ingiustamente, per porre fine alla pagliacciata prende Telemaco e lo piazza davanti al trattore di Odisseo. Odisseo è costretto a fermarsi per non spiaccicare il figlio, e dallo spavento che si prende risulta evidente che la sua non è pazzia, ma solo fancazzismo. E così viene portato di forza in guerra, cosa che avrebbe evitato tranquillamente se Penelope avesse lasciato il lattante a casa.
Ma vabé, poi non ci sarebbe stato il seguito, con grave rimessa da parte della classicità.

Comunque, questa Penelope che grida ai quattro venti che la donna deve essere apprezzata per la sua intelligenza, perché le bellone come Elena si associano molto facilmente alla parola Troia, non mi convince. Ha troppo la coda di paglia e si rode troppo sul fatto che Elena ha i glutei statuari e lei no, per essere credibile. E alla fine, oltre a erogare un mare di luoghi comuni e pregiudizi nel tentativo di sfatarne altri, finisce con il produrre l’effetto opposto ai suoi intenti: sembra che le donne stiano lì con i cartelloni e lo slogan “Non tette ma materia grigia!”, solo perché non sono delle Elene di Troia e non sanno in che altro modo farsi notare.

Ma vabè, il postmoderno è anche questo…

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